Qualcuno disse, parecchio tempo fa, che la penna ferisce più della spada. Altri replicarono che costui non aveva ancora visto una bomba atomica, ma magari nemmeno una pistola. Oggi questa frase torna spesso per rimarcare il potere della stampa. Io dico però che, parlando di giornali, anzi, meglio, di giornalisti, la forchetta ferisce ancor di più della penna. Non parlo di tutti, per carità. Ci sono giornalisti e giornalisti, come in tutti i mestieri. Ma in questo settore ne ho conosciuti alcuni che al posto del taccuino e della penna hanno tovagliolo e forchetta. Invece della macchina fotografica nello zaino hanno la “schiscietta” per gli avanzi.
Per TTG Italia, magazine di turismo letto da agenti di viaggio e operatori di settore, mi capita spesso di partecipare a conferenze stampa in quel di Milano: devo ammettere che queste sono occasioni per scoprire luoghi che non conoscevo di Milano, talvolta molto appartati, esclusivi, altrimenti chiusi al grande pubblico. E allo stesso tempo sono anche occasioni per gustare e degustare prelibatezze preparate da chef rinomati e stellati al cui tavolo, in altri momenti, mi potrei sedere molto difficilmente. Detto ciò, anche le più semplici conferenze stampa (spesso e volentieri organizzate nei più prestigiosi hotel del capoluogo meneghino) si concludono con un buffet. Giù le penne, ci si arma di forchetta. Ecco, proprio in questo atipico e singolare mondo del turismo, o meglio dei giornalisti del turismo, ci si imbatte in personaggi alquanto singolari, colleghi capaci di mettere in agenda anche 3 o 4 appuntamenti al giorno pur di non perdersi una tavola imbandita.
L’altro giorno ero in pieno centro. Hotel di classe, moderno ma austero, dall’aria internazionale. La conferenza stampa era in programma alle 18.30 ma inizia alle 19, con la solita mezz’ora di ritardo. In sala siamo circa una ventina: riconosco qualche viso noto, colleghi incontrati in altre situazioni che lavorano per giornali o magazine concorrenti. E poi riconosco loro, gli adepti del cosiddetto “club della tartina”, presenzialisti dalla fame atavica. Microfono acceso, prende il via la conferenza; uno, due, tre interventi. Un applauso di intermezzo che fa sempre comodo: non ho mai capito perché i giornalisti debbano applaudire, difatti cerco di evitare. Ultimo intervento e ultimo applauso. Saluti, ringraziamenti. “Ci sono domande?”. Sguardi impietriti, teste basse. Ma lui, seconda fila (la prima sarebbe un po’ troppo) alza la mano. Scrive per non so quale sito di non so quale testata, forse nemmeno lui lo sa. Anzi, forse nemmeno scrive. Ma si fa invitare. Capello biancastro, aria da giornalista navigato, tracolla, occhiali, smartphone in mano. Si fa dare il microfono e parte con una filippica che non ha una fine e tantomeno un punto di domanda. Difatti non è una domanda ma una riflessione: “Volevo fare con voi questa riflessione”, dice il collega. Perché dopo la sviolinata non si sa mai che arrivi l’ennesimo invito stampa!
Risposta impacciata dal tavolo. D’altronde a una sviolinata così poco celata non si sa mai cosa rispondere. E poi loro si aspettavano delle domande. “Bene allora vi invitiamo a mangiare qualc…”, io alzo la mano proprio mentre il moderatore sta per chiudere i lavori. Chiedo il microfono per una domanda, perché sono abituato così, se una cosa non la capisco la chiedo. Solo che l’acquolina in bocca dei colleghi affamati aveva già raggiunto le papille gustative e riempito il cervelletto di emozioni positive. Così dalle prime file si girano con un ghigno rabbioso: gli sto facendo perdere altro tempo. Domanda (magari non intelligente, ma con un punto interrogativo a chiusura) e risposta. Saluti e finalmente “buffet”.
Parola magica. Scatto felino, nonostante l’età avanzata, per guadagnare la prima fila, davanti al tavolo. Quando arrivo io, dopo aver posato la penna e riposto il taccuino e i fogli delle cartelle stampa nello zaino, loro hanno già in mano il secondo bicchiere di “bollicine” (ah, che odio) e un piattino su cui noto delle briciole, simbolo che hanno già consumato del companatico. Lei, sessant’anni circa, ma anche sessanta collane, altrettanti anelli sbarluccicanti e un chiodo extra small degno di una diciottenne, con il suo flut in mano e il capello ancora biondo a dispetto degli “anta”, è in fila e racconta dei bei tempi che furono: “Non è più come una volta, quando si guadagnava tanto e quando in questo ambiente investivano e giravano i soldi, quelli veri. Guarda qui questo buffet”. Ascolto, faccio finta di niente, perché mi verrebbe voglia di dire la mia ma capisco che non è il caso e me ne sto in fila.
Si procede a passo lento. Prima si prende il piatto, poi la forchetta. Altro passo avanti. C’è il pane. Ancora un passo. Affettati, formaggi e formaggini, antipastini mignon degni della migliore cucina molecolare che tanto piace ai colleghi. I più abili (e agili) nel frattempo sono già seduti a dei tavolini che nemmeno avevo notato, o forse nemmeno esistevano. Sono già al secondo giro, esausti, ma contenti. Parlano del nulla tra loro, sorridono con la bocca piena e la classica virgola di maionese sulle labbra. Io mi innesto nella coda che continua ad avanzare come si fosse in coda a Melegnano domenica 20 agosto alle 19 senza telepass. Sto per prendere, aiutandomi con l’apposita pinza, uno gnocco fritto. E arriva lui, contromano, in senso contrario, da ritiro della patente e anche del tesserino dell’ordine.
In effetti lo riconosco. Lo vedo spesso. Giovane, potremmo essere coetanei. Non so il suo nome ma mi piacerebbe un mondo sapere per quale fantomatico giornale scrive. Ricordo che alla conferenza, solo 10 minuti prima, era arrivato in ritardo, scusandosi con gli addetti stampa. E seduto al suo posto aveva chattato con il cellulare senza nemmeno sapere cosa stavano raccontando al microfono. Eccolo, avanza in senso contrario alla coda che costeggia il tavolo. Mi dice: “Ne approfitto, ho già il piatto in mano”. E con la solita bocca piena che si vede tutto (cazzo) tira una zampata alla ciotola dello gnocco fritto raccogliendone almeno sei e mettendoli nel piatto già stracolmo. Mi risorride come per ringraziarmi o forse perché si sente figo, no so. Vorrei dirgli qualcosa, anzi vorrei menarlo. Ma mi trattengo e sorrido anche io.
FOTO DA DIONISOO.BLOGSPOT.COM
Ah, quanti ne conosco di “mangiapanini”, caro Andrea… Brutta razza, ma a volte a noi addetti stampa fanno gioco: almeno fanno numero e la quantità delle presenze e il conseguente colpo d’occhio in platea durante un conferenza stampa sono sempre d’impatto per le aziende/enti che comunicano, i clienti nel nostro caso.
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